AVV. MATTEO PALLANCH

  Conseguito il diploma di laurea magistrale presso la Facoltà di Giurisprudenza di Trento nel gennaio 2010 con tesi sulla class action, intraprende la pratica professionale superando l’esame di Stato nella sessione 2012/2013, la prima utile. Iscritto all’albo degli avvocati del Foro di Trento, svolge la propria attività professionale in diversi ambiti, principalmente in materia di diritto penale e civile, con prevalenza nel diritto dei contratti, della responsabilità civile e delle successioni. Frequenta con successo la scuola territoriale della Camera Penale di Trento – Corso biennale 2014/2015 ottenendo le certificazioni necessarie per l’iscrizione nel registro dei difensori d’ufficio; L’avvocato, da allora, è stabilmente iscritto sia nel registro dei difensori d’ufficio che nell’elenco dei difensori abilitati alla difesa dei meno abbienti attraverso il patrocinio a spese dello Stato in materia civile e il patrocinio a spese dello Stato in materia penale (cosiddetto “gratuito patrocinio”). A partire dal 2014 – parallelamente alla propria attività processuale sia penale che civile – svolge stabilmente attività di consulenza in favore di numerose aziende, trentine e non, in materia di diritto dei contratti e del lavoro. A partire dal 2016 svolge anche attività di docenza in materia di diritto del lavoro per conto di imprese private: corsi di formazione per lavoratori, formazione di base e trasversale per lavoratori apprendisti, approfondimenti e corsi per professionisti e operatori.  

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...IL MESTIERE DELL’AVVOCATO

anzi

LA FUNZIONE DELL’AVVOCATO

(di quale avvocato ha bisogno?)

Avete presente i sogni di quando eravamo bambini?

Voglio fare l’astronauta. Voglio fare il pilota. Il pompiere.

Si chiama “gioco simbolico”. In parole povere i bambini si proiettano nel mondo degli adulti, immedesimandosi nell’eroe che vorrebbero diventare, mettendosi alla prova in una dimensione protetta. Quella della propria immaginazione.

Venendo a ciò che mi riguarda: io da piccolo volevo fare l’avvocato.

Erano gli anni ottanta del secolo scorso e tutti i romanzi ed i film dell’epoca proiettavano un’idea romantica della figura dell’avvocato che non poteva non affascinare.

C’erano due tipi di avvocato: quello un po’ anzianotto, certamente nobile, elegante, austero ma filantropo, che con l’aiuto della propria cultura e della propria personalità era capace di aiutare (spesso gratuitamente) le persone in difficoltà.

Il cliente standard di questo tipo di avvocato era “il debole”, cioè quel soggetto relegato dalla malasorte ai margini della società, in grave dissesto economico e indifeso. Ovviamente minacciato dai soprusi di un prepotente.

Poi c’era l’altro avvocato: quello ricco, bello, giovane e diabolicamente immorale. Si trattava per lo più di un avvocato d’affari o comunque collegato al mondo dei potenti. Ci siamo capiti: orologi costosi, macchine sportive, città rumorose, ristoranti di lusso, donne.

Insomma, questo secondo tipo di professionista, se lo analizziamo bene, era in buona sostanza proprio l’antagonista processuale dell’avvocato nobile descritto poco fa.

Questo secondo tipo di avvocato era quello senza scrupoli che, in cambio del pagamento di parcelle da capogiro, difendeva brillantemente proprio quei prepotenti che l’avvocato nobile doveva sconfiggere.

In effetti si trattava di due facce della stessa medaglia. Entrambe affascinanti. Potete negarlo?

Ebbene, torniamo al sottoscritto: sono cresciuto a Trento. Ho lavorato. Ho studiato. Mi sono laureato. Ho portato a compimento la pratica professionale. Ho superato l’esame di Stato (per giunta al primo tentativo). Mi sono fatto una clientela. Uno studio. Mi è capitato di difendere clienti di ogni estrazione sociale. Ed ecco qui, sono un avvocato. Ma quale dei due tipi?

La risposta è: ovviamente nessuno dei due.

La vita, quella di uomo e non quella di professionista, quella fatta di successi ma anche di sconfitte, quella in cui si alternano attimi di cui andare fiero ad altri che invece è meglio dimenticare, mi ha presto insegnato una cosa importante. Che non ci sono i “deboli in senso assoluto” o i “prepotenti sempre e comunque”. Non ci sono, insomma, i buoni e i cattivi. Queste sono astrazioni. Sono categorie buone per l’infanzia. Sono schemi che ci aiutano ad approcciarci alla realtà. Vanno bene, appunto, per i giochi simbolici dell’età prescolare.

La realtà è molto, ma molto, più caotica.

Funziona così: l’avvocato viene a contatto con una persona per via di una singola questione. Insomma, quello che chiamerò “cliente” è solo e sempre un individuo che entra nello studio portando con sé un singolo problema. Un dubbio da chiarire, una vertenza da risolvere, una lite dalla quale far emergere le proprie ragioni, un’incriminazione per un reato che non si è commesso oppure un’imputazione per un delitto del quale si è effettivamente responsabili e con la paura di fare i conti con le conseguenze delle proprie azioni.

Assunto l’incarico, ci si trova a difendere le ragioni di una persona che, in effetti, non si conosce, se non superficialmente.

È quindi evidente che l’avvocato, al primo impatto con il cliente, si formi una sorta di giudizio personale circa la persona che dovrà difendere. È un meccanismo automatico. Il cliente, al primo incontro, potrà quindi apparire all’avvocato come un esponente della categoria “deboli e indifesi” (quelli che cercano il difensore filantropo, nobile e paterno) oppure un appartenente alla classe dei “potenti e ambiziosi” (quelli ricchi che pagano parcelle profumate e cercano l’avvocato complice e senza scrupoli).

Allora può capitare di domandarsi: “Dovrei forse modulare il mio approccio professionale, adeguandolo alle aspettative del cliente a seconda della categoria di appartenenza? Dovrei insomma essere apprensivo con il debole e malizioso con il potente?”.

Credo di aver trovato la risposta a questa domanda.

La risposta è: No. Non dovrei. Non dovrei in quanto sia il debole che il prepotente cercano dall’avvocato esattamente la stessa cosa.

Vogliono trovare competenza.

Conoscenza della legge, delle procedure, delle prassi, dei precedenti.

Vogliono un risultato e quindi cercano un professionista che trovi il modo di risolvere il loro problema.

E dove si troverà mai questo “modo”, se non nella legge?

In definitiva il cliente non entra nello studio legale per trovare un protettore o un complice, e nemmeno per sapere se l’avvocato gli dà ragione o torto.

Il cliente da noi vuole sapere se la legge gli dà ragione o torto!

Non trovate ci sia una differenza significativa tra le due cose?

Abbiamo appena visto, quindi, che fuori dai film e dai giochi simbolici il cliente non è assolutamente alla ricerca né di un paladino dei deboli né di un complice senza scrupoli. È solo alla ricerca di un professionista competente, che sappia evitare di trascinarlo in un processo dal quale non potrà che uscire con le ossa rotte e che sia invece capace di spronarlo a resistere quando l’esperienza gli suggerirà che l’esito del processo sarà favorevole.

Tutti questi ragionamenti ci portano a considerare come il professionista serio non sia assolutamente quello che si immoli a paladino delle pretese di una persona solo in quanto facente parte di una categoria (“i deboli”, “i ricchi”, i “potenti”, “le donne”, “i lavoratori”, ecc.).

L’avvocato competente è quello che intraprende la difesa di un individuo in quanto parte di una vertenza. In quanto titolare di un diritto, che non può che essere affermato.

Si ragiona infatti con le leggi. E si vince o si perde solo in quanto noi avvocati siamo o meno capaci di trovare nella legge le ragioni e quindi i diritti del nostro cliente.

Il mestiere dell’avvocato consiste quindi nella capacità di riconoscere i diritti dei nostri clienti e di individuare la miglior strategia per poterli affermare.

Si tratta, in sostanza, in ogni causa e in ogni singolo procedimento di trovare e difendere i diritti e non le persone.

E un processo concluso senza che tutti i diritti siano stati riconosciuti e valutati sarà inguaribilmente un processo ingiusto.

Ecco in definitiva la funzione dell’avvocato: quella di garantire al cittadino l’effettività della tutela dei diritti.

Non è questa una missione ben più nobile rispetto alla pretesa di difendere un “buono” o un “debole”?

Avv. Matteo Pallanch

LEGGE PROFESSIONALE FORENSE

Legge 31 dicembre 2012 n. 247

Art. 2 – disciplina della professione di avvocato

L'avvocato ha la funzione di garantire al cittadino l'effettività della tutela dei diritti.”

Art. 8 Impegno solenne

Per poter esercitare la professione, l'avvocato assume dinanzi al consiglio dell'ordine in pubblica seduta l'impegno di osservare i relativi doveri, secondo la formula: «Consapevole della dignità della professione forense e della sua funzione sociale, mi impegno ad osservare con lealtà, onore e diligenza i doveri della professione di avvocato per i fini della giustizia ed a tutela dell'assistito nelle forme e secondo i principi del nostro ordinamento»