Avvocato Pallanch

Quando il MOBBING integra il reato di STALKING…Il datore di lavoro rischia 5 anni di prigione

Come riconoscere il mobbing.

Come meglio descritto in precedenti contributi (che trovate cliccando QUI), possiamo parlare di mobbing in caso di coesistenza di tutti i seguenti requisiti:

a) pluralità di atti

b) diretti alla persecuzione o emarginazione della vittima

c) i quali producono una lesione della sfera professionale o personale del lavoratore

d) nesso di causalità tra le condotte e la lesione.

Dal punto di vista civile, la conseguenza del mobbing è certamente l’insorgere di una giusta causa di dimissione e di una obbligazione civile risarcitoria per i danni patrimoniali e non patrimoniali cagionati.

Ma dal punto di vista penale?

Mobbing e reato di stalking

Chiunque abbia un minimo di dimestichezza con il diritto penale, leggendo il precedente catalogo di requisiti, avrà immediatamente rinvenuto una particolare affinità con gli elementi costitutivi del delitto di Atti Persecutori (c.d. stalking).

Il codice penale, all’art. 612 bis punisce infatti con la reclusione da 6 mesi a 5 anni chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumita’ propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita.

La Suprema Corte, con sentenza n. 31273 del 14.09.2020 ha confermato che gli atti vessatori diretti a mortificare e isolare il dipendente nell’ambiente di lavoro possono integrare gli estremi del delitto di atti persecutori di cui all’ art. 612- bis c.p. , quando ricorrano gli elementi costituivi del fatto reato e, in particolar modo, uno degli eventi alternativi previsti dalla norma incriminatrice.

Per chi volesse approfondire, di seguito si riporta l’intero ragionamento della Suprema Corte:

Cassazione penale sez. V, 14/09/2020, (ud. 14/09/2020, dep. 09/11/2020), n.31273

(…)

3.1. L’elaborazione giurisprudenziale giuslavoristica in tema di tutela delle condizioni di lavoro ha delineato i tratti caratterizzanti il mobbing lavorativo, che si configura ove ricorra l’elemento obiettivo, integrato da una pluralità di comportamenti vessatori del datore di lavoro, e quello soggettivo dell’intendimento persecutorio del datore medesimo (Ex multis Sez. L, n. 12437 del 21/05/2018, S. contro N., Rv. 648956) che unifica la condotta, unitariamente considerata.

Ed è proprio siffatta finalità a svolgere una peculiare funzione selettiva, in quanto, ai fini della configurabilità di una ipotesi di mobbing, non è condizione sufficiente l’accertata esistenza di plurime condotte datoriali illegittime, ma è necessario che il lavoratore alleghi e provi, con ulteriori e concreti elementi, che i comportamenti datoriali siano il frutto di un disegno persecutorio unificante, preordinato alla prevaricazione (Sez. L, n. 10992 del 09/06/2020, V. contro A., Rv. 657926, N. 4222 del 2016 Rv. 639204, N. 12437 del 2018 Rv. 648956, N. 26684 del 2017 Rv. 646150).

In tal senso, il mobbing può definirsi in termini di “mirata reiterazione di plurimi atteggiamenti, convergenti nell’esprimere ostilità verso la vittima e preordinati a mortificare e a isolare il dipendente nell’ambiente di lavoro”.

3.2. In riferimento alla rilevanza penale delle condotte di mobbing, questa Corte ha affermato come le pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione possono integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia, qualora il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente assuma natura para-familiare, in quanto caratterizzato da relazioni intense ed abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia (Sez. 6, n. 14754 del 13/02/2018, P.C. in proc. M., Rv. 272804, N. 28603 del 2013 Rv. 255976, N. 13088 del 2014 Rv. 259591, N. 24057 del 2014 Rv. 260066, N. 24642 del 2014 Rv. 260063).

Sempre valorizzando il piano della relazione – verticale – tra le parti, si è precisato come, in tema di esercizio del potere di correzione e disciplina in ambito lavorativo, configura il reato previsto dall’art. 571 c.p. la condotta del datore di lavoro che superi i limiti fisiologici dell’esercizio di tale potere (nella specie rimproveri abituali al dipendente con l’uso di epiteti ingiuriosi o con frasi minacciose), mentre integra il delitto di cui all’art. 572 c.p. la condotta del datore di lavoro che ponga in essere nei confronti del dipendente comportamenti del tutto avulsi dall’esercizio del potere di correzione e disciplina, funzionale ad assicurare l’efficacia e la qualità lavorativa, e tali da incidere sulla libertà personale del dipendente, determinando nello stesso una situazione di disagio psichico (Sez. 6, n. 51591 del 28/09/2016, V., Rv. 268819, N. 10090 del 2001 Rv. 218201).

Si è, in tal senso, rimarcato il profilo di abuso di quegli obblighi di protezione che caratterizzano tanto il rapporto di lavoro subordinato, dalla parte datoriale, che i vincoli latu sensu (para)familiari, in un’ottica indirizzata alla verifica della lesione all’integrità fisica, che ha sciolto l’alternativa tra la qualificazione del fatto ai sensi dell’art. 582 o degli artt 571 e 572 c.p. e limitando l’indagine al bene-interesse della salute (V. Sez. 5, n. 33624 del 09/07/2007, P.C. in proc. De Nubblio, Rv. 237439).

3.3. Siffatta visione, tutta incentrata sulla tutela dell’integrità psico-fisica della vittima, insiste, nondimeno, sulla connotazione del fenomeno del mobbing in termini di mirata reiterazione di plurimi atteggiamenti convergenti nell’esprimere ostilità verso la vittima e preordinati a mortificare e a isolare il dipendente nell’ambiente di lavoro; e non esclude – ma, anzi, conferma – la riconducibilità dei fatti vessatori alla norma incriminatrice di cui all’art. 612-bis c.p., ove ricorrano gli elementi costituivi di siffatta fattispecie e, in particolare, la causazione di uno degli eventi ivi declinati.

Ed invero il delitto di atti persecutori – che ha natura di reato abituale e di danno – è integrato dalla necessaria reiterazione dei comportamenti descritti dalla norma incriminatrice e dal loro effettivo inserimento nella sequenza causale che porta alla determinazione dell’evento, che deve essere il risultato della condotta persecutoria nel suo complesso, sicchè ciò che rileva è la identificabilità di questi quali segmenti di una condotta unitaria, causalmente orientata alla produzione di uno degli eventi, alternativamente previsti dalla norma incriminatrice (ex multis Sez. 5, n. 7899 del 14/01/2019, P., Rv. 275381), che condividono il medesimo nucleo essenziale, rappresentato dallo stato di prostrazione psicologica della vittima delle condotte persecutorie (Sez. 5, n. 11931 del 28/01/2020, R., Rv. 278984).

Ed è siffatto nucleo essenziale a qualificare giuridicamente la condotta che può, invero, esplicarsi con modalità atipica, in qualsivoglia ambito della vita, purchè sia idonea a ledere il bene interesse tutelato, e dunque la libertà morale della persona offesa, all’esito della necessaria verifica causale.

In altri termini, il contesto entro il quale si situa la condotta persecutoria è del tutto irrilevante, quando la stessa abbia determinato un vulnus alla libera autodeterminazione della persona offesa, determinando uno degli eventi previsti dall’art. 612-bis c.p.. Ed assume mero contenuto descrittivo, che peraltro registra ma non limita la varietà degli ambiti fenomenologici, il riferimento a diverse declinazioni del reato, correlate a specifiche “ambientazioni” (cd. stalking condominiale, giudiziario…).

Ne consegue che nessuna obiezione sussiste, in astratto, alla riconduzione delle condotte di mobbing nell’alveo precettivo di cui all’art. 612-bis c.p. laddove quella “mirata reiterazione di plurimi atteggiamenti, convergenti nell’esprimere ostilità verso la vittima e preordinati a mortificare e a isolare il dipendente nell’ambiente di lavoro”, elaborata dalla giurisprudenza civile come essenza del fenomeno (V. supra p., 3.1), sia idonea a cagionare uno degli eventi delineati dalla norma incriminatrice.