LOCAZIONE – risoluzione del contratto se l’inquilino è un incivile.
– Proprietario: “Sono disperato! Ho affittato un appartamento a dei ragazzi, ma sono delle bestie! Schiamazzi a tutte le ore, feste, musica, sporcizia! I vicini mi odiano”.
– Amico del proprietario: “Beh, e tu sfrattali!”
– Proprietario: “E come faccio? I ragazzi saranno pure maleducati, ma sono di buona famiglia. Pagano regolarmente!”
– Amico del proprietario: “E quindi? Te li devi tenere?”
– Proprietario: “Temo di si! Se pagano, tecnicamente, non c’è inadempimento e quindi il contratto rimane valido!”
Molti si sono trovati in questa situazione.
Ma è proprio vero che non c’è soluzione? È vero che la legge non consente al locatore di risolvere il contratto se l’inquilino disturba i vicini ma non danneggia l’immobile e paga canoni e spese?
Una volta era così, ma le cose sono cambiate!
A cambiare non è stata la legge, ma l’orientamento dei giudici.
COSA DICE LA LEGGE
Lart. 1587 del codice civile, in materia di locazione stabilisce che le obbligazioni del conduttore (cioè dell’inquilino) sono due.
1) pagare il corrispettivo nei termini convenuti
2) prendere in consegna l’immobile ed osservare la diligenza del buon padre di famiglia nel servirsene secondo l’uso per cui la stessa è stata locata.
LA GIURISPRUDENZA
(il cambio di rotta)
Secondo le pronunce più risalenti della Cassazione, una situazione come quella in esame non avrebbe qualificato ipotesi di abuso del godimento dell’immobile ai sensi dell’art. 1587 n. 2 c.c.
La giurisprudenza in passato riconosceva l’abuso del godimento del bene locato solo qualora si fossero modificati lo stato di fatto e la destinazione d’uso dell’immobile e nella misura in cui dette modifiche comportassero un danno economico per il locatore.
Il più recente orientamento giurisprudenziale ha però esteso l’ambito di azione dell’art. 1587 c.c. anche ai casi in cui, anche in assenza di modificazione di fatto dell’immobile o di cambio della destinazione d’uso, la modalità di utilizzo possa comunque pregiudicare il valore dell’immobile stesso.
Secondo tale giurisprudenza, in sostanza, l’art. 1587 c.c., comma 1, n. 2) c.c. deve essere interpretato nel senso che costituisce uso non diligente dell’immobile non solo quella condotta che cagioni un danno patrimoniale al bene (es. rompere le finestre, abbattere pareti, ecc.) ma anche la condotta dell’inquilino che cagioni molestia ai vicini di casa.
Secondo il più recente orientamento, pertanto, il conduttore potrà ottenere la risoluzione del contratto di locazione se dimostrerà (ad esempio attraverso la testimonianza degli altri condomini) che l’inquilino molesta i vicini di casa, attraverso un uso non diligente dell’immobile locato.
Corte di Cassazione, sez. III Civile, ordinanza 30 giugno – 20 ottobre 2020, n. 22860
Rilevato
che:
Il Tribunale di Genova, con sentenza n. 3456/2015, dichiarava risolto un contratto di locazione abitativa (…) per inadempimento della conduttrice C. , condannando quest’ultima a rilasciare l’alloggio: riteneva invalida la clausola risolutiva espressa di cui all’art. 22 del contratto – perché prevedente in modo generico la risoluzione di diritto per ogni violazione contrattuale – ma comunque sussistente l’inadempimento, rilevante ai fini della risoluzione, per violazione dell’art. 2 del contratto, vietante al conduttore di “compiere atti e tenere comportamenti che possano recare molestia agli altri abitanti dello stabile”, nonché dell’art. 1587 c.c., per cui il conduttore deve osservare la diligenza del buon padre di famiglia nel servirsi della cosa. L’inadempimento sarebbe stato consistente nell’avere la conduttrice molestato i vicini di casa, come risultante da dichiarazioni della vicina , del di lei marito , della vicina e del vicino , che avrebbero riferito di insulti della conduttrice alla Ca. e di imbrattamenti con vernice bianca della porta di quest’ultima, nonché dell’affissione alla porta della C. di cartelli con ingiurie ai vicini.
La C. proponeva appello, negando i presupposti della risoluzione, non essendo attendibili le dichiarazioni dei testi, che sarebbero stati animati da rancore nei suoi confronti, e comunque le loro dichiarazioni riguardando un unico episodio, non essendo avvenuti altri episodi di molestie. Controparte resisteva.
La Corte d’appello di Genova, con sentenza del 12 luglio 2017, rigettava il gravame.
La C. ha proposto ricorso, articolato in sei motivi, da cui A.R.T.E. si è difesa con controricorso, illustrato anche con memoria.
Considerato
che:
1. Il primo motivo denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione ed errata applicazione dell’art. 1587 c.c.
Riguardo tale norma la giurisprudenza dapprima avrebbe individuato l’abuso del godimento del bene locato solo qualora si fossero modificati lo stato di fatto e la destinazione d’uso dell’immobile e nella misura in cui dette modifiche comportassero un danno economico al locatore, ovvero qualora si metteva in dubbio la conservazione del bene locato, da restituire nelle identiche condizioni in cui era stato ricevuto. Successivamente avrebbe esteso l’art. 1587 c.c. ai casi in cui, anche in assenza di modificazione di fatto dell’immobile o cambio della destinazione d’uso, l’uso possa comunque pregiudicare il valore dell’immobile stesso.
Il giudice d’appello invoca Cass. 6751/1987, citata anche dal primo giudice, sui casi eccedenti la normale tollerabilità, sentenza che “nulla dice a proposito della dimostrazione dell’incidenza negativa di tali fatti sul valore locativo della cosa”, introducendo invece un altro criterio: il comportamento del conduttore che molesta i vicini sarebbe inadempimento contrattuale, per abuso della cosa locata (art. 1587 c.c.) nei confronti del locatore, “il quale dovrebbe rispondere verso gli altri inquilini come di fatto proprio, se tollerasse tali molestie”. Quindi secondo la giurisprudenza di legittimità il contratto può essere risolto non solo se vi è diminuzione del valore del bene locato, ma anche quando ipoteticamente il locatore potrebbe diventare responsabile nei confronti dei vicini per le molestie del conduttore. Tale giurisprudenza “dovrebbe condurre a ritenere che non è necessaria la prova del danno ma è sufficiente che si possa ipotizzare che il locatore sia chiamato a risponderne” se non si attiva a chiedere la risoluzione del contratto e a far cessare le molestie.
Questa tesi sarebbe contraddittoria rispetto a quella, “già estensivamente interpretativa”, dell’ulteriore giurisprudenza per cui il danno deve essere accertato e non potenziale, e deve investire il bene locato, non il locatore. Quindi la sentenza d’appello si fonderebbe su una sentenza di legittimità “di cui si contesta l’applicabilità in quanto interpretativa della norma in misura tale da comportare una riformulazione non ammessa”.
(…)
2. Il secondo motivo denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione a proposito dell’applicazione degli artt. 1453 e 1455 c.c.
I giudici di merito avrebbero disatteso le argomentazioni del locatore a favore della risoluzione del contratto ex art. 1456 c.c.: il Tribunale aveva ritenuto l’art. 22 del contratto una clausola generica, e il contratto risolto ai sensi dell’art. 1587 c.c. Il Tribunale, e con esso il giudice d’appello, avrebbero dovuto tenere conto del principio di cui all’art. 1455 c.c.: non vi è risoluzione se l’inadempimento è di scarsa importanza. A.R.T.E. non si sarebbe posto il problema della prova dell’importanza dell’inadempimento, perché avrebbe ritenuto risolvibile il contratto ipso jure ex art. 1456 c.c.
La Corte d’appello osserva che il giudice di prime cure ha ritenuto l’inadempimento “rilevante per la risoluzione”; invece la sentenza di primo grado nulla avrebbe detto in ordine alla rilevanza dell’inadempimento, pur dovendo valutare ciò anche d’ufficio. E se giudice avesse valutato, “non avrebbe non potuto rilevare l’enorme sproporzione tra le conseguenze dannose che la risoluzione comporta per la C. ed il rischio solo teorico, in capo al locatore, di rispondere “come per fatto proprio”, di danni nei confronti di un singolo o di più condomini”.
3. Il terzo motivo denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione dell’art. 345 c.p.c., comma 3.
La Corte d’appello ha affermato che “non vi è ragione di disattendere le dichiarazioni rese dai testi” (…)
Si obietta che la sentenza penale non sarebbe mai stata richiamata nella sentenza di primo grado, e “mai introdotta nel giudizio civile”.
(…)
4. Il quarto motivo denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione ed errata interpretazione dell’art. 654 c.p.p.
(…)
5. Il quinto motivo denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione della sentenza impugnata.
Secondo il giudice d’appello non vi sarebbe ragione per disattendere le testimonianze raccolte in primo grado.
(…)
6. Il sesto motivo denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione della sentenza impugnata.
7. Il primo motivo presenta una sostanza fattuale in ordine alla valutazione della sussistenza della violazione dell’art. 1587 c.c. nella condotta della C. , e argomenta artificiosamente su una frase tratta da Cass. 6751/1997 (quella relativa alla responsabilità del locatore nei confronti dei terzi danneggiati dal conduttore): il giudice d’appello ha citato tale pronuncia e altri arresti soltanto per affermare che, secondo la giurisprudenza di legittimità, le molestie ai vicini costituiscono abuso di bene locato in violazione quindi dell’art. 1587 c.c., e ciò è indiscutibile. Per di più il giudice d’appello ha anche confermato l’inadempimento (già proclamato dal Tribunale) del contratto in rapporto al suo art. 2, prevedente divieto di molestie agli altri abitanti dello stabile. Il rilievo della condotta della C. ai fini dell’inadempimento dell’obbligo di cui all’art. 1587 c.c., n. 1 è oggetto di valutazione di merito; e ad abundantiam ben si può riconoscere che la condotta inadempiente ai fini della risoluzione può essere integrata anche da un solo episodio, per la gravità dello stesso, che, si ripete, deve essere valutata dal giudice di merito.
Il motivo quindi risulta inammissibile, perché in realtà, pur tentando di schermarsi con peraltro infondati – rilievi di diritto, attua una revisione del compendio probatorio partendo dalla ordinanza istruttoria di primo grado.
8. Il secondo motivo, ictu oculi, costituisce un tentativo di replica, da un apparentemente diverso punto di vista, del precedente motivo. Dalla motivazione della sentenza d’appello emerge che la corte territoriale ha valutato la rilevanza della condotta della C. ; anche questa censura è in realtà fattuale, in quanto nega la sussistenza di tale prova.
9. (…)
Il motivo pertanto merita rigetto.
10. Per quanto appena rilevato per il terzo, non vi è interesse al quarto motivo; (…)
11. Il quinto motivo costituisce evidentemente una inammissibile valutazione alternativa delle prove ivi citate. Viene qui ripreso anche l’argomento, già confutato a proposito dei due precedenti motivi, del richiamo da parte del giudice d’appello alla sentenza penale.
12. Nel sesto motivo, (…)
13. In conclusione il ricorso va rigettato, con conseguente condanna della ricorrente alla rifusione delle spese del grado – liquidate come da dispositivo – alla controricorrente.
Seguendo l’insegnamento di S.U. 20 febbraio 2020 n. 4315 si dà atto, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso…