MOBBING – Ne risponde anche il datore di lavoro che non lo impedisce!
La sentenza in commento (qui sotto) ci offre importanti spunti di riflessione.
In primo luogo troviamo una aggiornata e completa definizione di mobbing, con una chiara indicazione dei suoi requisiti necessari:
a) pluralità di atti
b) diretti alla persecuzione o emarginazione della vittima
c) lesione della sfera professionale o personale del lavoratore
d) nesso di causalità tra le condotte e la lesione
La sentenza approfondisce il tema mobbing, chiarendo come quest’ultimo rappresenti, da un punto di vista giuridico, una grave violazione dell’obbligo di sicurezza che la legge pone a carico del datore di lavoro.
L’art. 2087 del codice civile impone infatti all’imprenditore di:
“adottare, nell’esercizio dell’impresa, le misure che (…) sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.
Ciò chiarito, la Suprema Corte spiega come l’imprenditore non sia semplicemente tenuto ad astenersi da azioni che ledano la sfera psicofisica dei dipendenti, ma come lo stesso sia parimenti obbligato a porre in essere concrete e tempestive azioni per impedire che il mobbing avvenga da parte di un dipendente ai danni di un lavoratore che gli sia gerarchicamente subalterno.
L’art. 2049 del codice civile, d’altra parte, stabilisce che l’imprenditore è direttamente responsabile dei danni arrecati dai loro dipendenti (ai danni di altro dipendente, in questo caso).
Il caso esaminato dalla Suprema Corte riguarda la colpa del datore di lavoro consistente nel non aver tempestivamente ed efficacemente impedito che avvenisse del mobbing in danno a una dipendente.
Quest’ultima, nella sostanziale inerzia dell’imprenditore, era stata trasferita da un suo superiore dal proprio ufficio in un’area open, senza che venisse munita di una propria scrivania e di un proprio armadio, con sottrazione delle risorse utili allo svolgimento dell’attività, con creazione di reiterate situazioni di disagio professionale e personale per aver dovuto trattare in un luogo aperto al passaggio di chiunque, attività riservate e per essere stata, in più occasioni, insultata con espressioni grossolane.
Estratto da:
Cassazione civile sez. lav., 09/09/2008, n.22858
Integra la nozione di “mobbing” la condotta del datore di lavoro protratta nel tempo e consistente nel compimento di una pluralità di atti (giuridici o meramente materiali, ed, eventualmente, anche leciti) diretti alla persecuzione o all’emarginazione del dipendente, di cui viene lesa – in violazione dell’obbligo di sicurezza posto a carico dello stesso datore dall’art. 2087 c.c. – la sfera professionale o personale, intesa nella pluralità delle sue espressioni (sessuale, morale, psicologica o fisica); né la circostanza che la condotta di mobbing provenga da un altro dipendente posto in posizione di supremazia gerarchica rispetto alla vittima vale ad escludere la responsabilità del datore di lavoro – su cui incombono gli obblighi ex art. 2049 c.c. – ove questi sia rimasto colpevolmente inerte nella rimozione del fatto lesivo, dovendosi escludere la sufficienza di un mero (e tardivo) intervento pacificatore, non seguito da concrete misure e da vigilanza (nella specie, la S.C., nel cassare la sentenza impugnata, ha rilevato che il giudice di merito aveva valutato le condotte in termini non solo incompleti ma anche con un approccio meramente atomistico e non in una prospettiva unitaria, con sottovalutazione della persistenza del comportamento lesivo, durato per un periodo di sei mesi, più che sufficiente ad integrare l’idoneità lesiva della condotta nel tempo, che – nella sostanziale inerzia del datore di lavoro – era consistita nell’inopinato trasferimento, da parte di un altro dipendente gerarchicamente sovraordinato, di una dipendente (incaricata della trattazione di un progetto aziendale di rilevanza europea) dal proprio ufficio in un’area open, senza che venisse munita di una propria scrivania e di un proprio armadio, con sottrazione delle risorse utili allo svolgimento dell’attività, con creazione di reiterate situazioni di disagio professionale e personale per aver dovuto trattare in un luogo aperto al passaggio di chiunque, attività riservate e per essere stata, in più occasioni, insultata con espressioni grossolane).