Avvocato Pallanch

Risarcimento per la perdita dell’animale da compagnia: ancora niente da fare.

Proprio così: pare non ci sia nulla da fare.

Il dolore che prova chi è costretto a subire la perdita del proprio animale domestico a causa di una condotta di terzi, non ha diritto ad essere risarcito.

Se con vigore le corti di merito (i primi due gradi di giudizio) tendono invero a considerare risarcibile il danno non patrimoniale (c.d. esistenziale) derivante dalla perdita – rimproverabile a titolo di colpa o di dolo a qualcuno – del c.d. animale d’affezione, la Suprema Corte tende invece a chiudere nettamente la porta a tale ipotesi risarcitoria.

Prima di gridare allo scandalo…

 

…Qualche breve premessa normativa può essere utile a farsi un’opinione.

Cos’è un “animale da compagnia”?

La risposta ci è data dal D.P.C.M. 28 febbraio 2003 il quale recepisce l’accordo di cui all’allegato 1, stipulato il 6 febbraio 2003 tra il Ministro della salute, le Regioni e le Province Autonome di Trento e di Bolzano, che disciplina il particolare rapporto di affezione tra l’uomo e l’animale, al fine di rendere più omogeneo l’intervento pubblico nel complesso scenario della protezione degli animali da compagnia.

L’art. 1, comma 2, del citato accordo definisce «animale da compagnia»: ogni animale tenuto, o destinato ad essere tenuto, dall’uomo, per compagnia o affezione senza fini produttivi od alimentari, compresi quelli che svolgono attività utili all’uomo, come il cane per disabili, gli animali da pet-therapy, da riabilitazione, e impiegati nella pubblicità. Gli animali selvatici non sono considerati animali da compagnia;

Il danno patrimoniale da perdita dell’animale da compagnia

Con il termine “danno patrimoniale” facciamo riferimento agli effetti di una condotta dal punto di vista sia della diminuzione del patrimonio del soggetto danneggiato (c.d. danno emergente) che del mancato guadagno (c.d. lucro cessante).

Ebbene, l’uccisione dell’animale da compagnia da parte di terzi (quale conseguenza di una condotta colposa o dolosa) certamente dà luogo all’obbligo di risarcire il danno patrimoniale: il padrone dell’animale verrà quindi risarcito del valore dell’animale (che dovrà essere dimostrato!) e delle spese sostenute per le cure veterinarie (purché di costo non eccessivo rispetto al valore economico della povera bestiola, secondo certa giurisprudenza di merito). Potrà anche essere risarcito del c.d. lucro cessante, sempre che il padrone dell’animale sia in grado di dimostrarlo. Si pensi all’uccisione di un cane da sfilata, capace di produrre un reddito economicamente apprezzabile.

E il danno non patrimoniale?

Trovare una definizione di danno non patrimoniale è molto più complesso, ed è anzi proprio tale complessità ad occasionare lo scostamento tra le sentenze di merito e quelle della Suprema Corte sul punto.

In linea generale è possibile affermare che il risarcimento del danno non patrimoniale – secondo l’orientamento che si è andato a definire in Italia dopo le famose Sentenze di San Martino (Cass. civ. Sez. Unite Sent., 11/11/2008, n. 26972/26793/26794/26795) – è un concetto unitario ed è sussistente solo in ipotesi di 1) danno biologico (cioè di un danno alla salute psico – fisica), 2) di danno quale conseguenza di un reato e 3) di lesione di un interesse costituzionalmente tutelato.

Appare sin troppo evidente come l’uccisione dell’animale da compagnia non costituisca un’ipotesi di danno biologico: la lesione alla salute la subisce infatti l’animale e non il suo padrone.

L’uccisione, ad opera di terzi, di un animale da compagnia può però essere conseguenza di reato (es. polpette avvelenate). In questo caso non paiono sussistere dubbi sulla risarcibilità del danno patrimoniale. Lo è certamente. Ma non in quanto sia attribuito un valore al legame affettivo tra l’umano e l’animale di casa. Il danno non patrimoniale, in questo caso, deriva direttamente dalla commissione di un reato in danno al proprietario dell’animale.

veniamo ora al problema di cui ci occupiamo oggi.

E se l’uccisione dell’animale non derivasse da reato ma da semplice atteggiamento colposo di terzi (es. incidente stradale)? In questo caso, la lesione del legale tra umano e animale d’affezione ed il dolore che ne deriva, costituisce unipotesi di danno non patrimoniale ammessa dall’ordinamento italiano?

La Suprema Corte, già da anni, dà una secca risposta negativa a tale domanda, ribadendo che in tema di responsabilità aquiliana il danno non patrimoniale deve essere risarcito non solo nei casi di lesione di situazioni soggettive costituzionalmente protette, ma anche nei casi di situazioni legislativamente protette come figure tipiche di danno non patrimoniale, rientranti nell’ambito di una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c. Non appare riconducibile tuttavia né all’una né all’altra categoria di danni non patrimoniali risarcibili la perdita, a seguito di un fatto illecito (incidente stradale), di un (…) animale di affezione, in quanto essa non è qualificabile come fattispecie di danno esistenziale consequenziale alla lesione di un interesse della persona umana alla conservazione di una sfera di integrità affettiva costituzionalmente tutelata, né tanto meno può essere sufficiente a tal fine la deduzione di un danno “in re ipsa”, con il generico riferimento alla perdita della qualità della vita (ex multis Cass. Civ. n. 14846 del 27.06.2007)

I Tribunali di merito hanno, nel tempo, tentato di erodere il muro eretto dalla Suprema Corte, affermando che, in buona sostanza, dopo le prime sentenze che cassavano ipotesi risarcitorie, i tempi sono cambiati e che la società ed i suoi costumi sono progrediti. Che quindi oggi la perdita di un animale d’affezione, specie nel caso in cui il rapporto sia radicato da tempo, comporti un pregiudizio non soltanto alla sfera emotivo-interiore, ma sia suscettibile di modificare e alterare le abitudini di vita e gli assetti relazioni del danneggiato”. Ne conseguirebbe, secondo un certo orientamento giurisprudenziale (di merito) che affermare che la sua perdita sia “futile” e non integri la lesione di un interesse della persona alla conservazione della propria sfera relazionale-affettiva, costituzionalmente tutelata, non sembra più rispondente ad una lettura contemporanea delle abitudini sociali e dei relativi valori.

Sino ad oggi, però, i tentativi di certa giurisprudenza di merito non sono riusciti a convincere la Suprema Corte del fatto che la società moderna vede finalmente il rapporto dell’uomo con l’animale domestico come un interesse costituzionalmente tutelato in quanto afferente direttamente alla qualità della vita.

Le più recenti sentenze in materia (cfr. Cassazione Civile sez. VI, 23.10.2018 n. 26770) ci dicono infatti che il muro è ancora tutto da abbattere. La Suprema Corte è oggi ancora ben salda sulla propria posizione consistente nel ritenere che non è riconducibile ad alcuna categoria di danno non patrimoniale in quanto essa non è qualificabile come danno esistenziale consequenziale alla lesione di un interesse della persona umana alla conservazione di una sfera di integrità affettiva costituzionalmente tutelata, non potendo essere sufficiente, a tal fine, la deduzione di un danno in re ipsa, con il generico riferimento alla « qualità della vita ».

Chi vivrà vedrà.

Avv. Matteo Pallanch